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Guardavo il culo di una ragazza

    Guardavo il culo di una ragazza,
    poco fa.

    Certo, avrei potuto scrivere il sedere,
    ma non sedeva,
    non era verbo.
    Camminava e ancheggiava
    anche.

    Insomma,
    avrei voluto guardarle
    il fegato o i polmoni,
    ma erano lontani,
    coperti da pelle, ossa, muscoli.
    Poi era di spalle,
    quindi una rapida scelta
    tra le scapole,
    i talloni
    e il culo
    mi ha portato lì.

    Sulla mia spalla sinistra
    è apparso un diavoletto
    (retaggio infantile
    di asili e suore e vita
    in uno Stato di cose
    papale papale)
    che mi diceva di continuare
    a guardare.

    Sulla spalla destra
    un angioletto
    guardava, e anche lui
    suggeriva di guardare.

    Non li avevo mai visti prima,
    non li avevo mai visti d’accordo.

    Per un momento ho voluto credere in dio,
    o almeno credo.

    Guardavo,
    e ovviamente pensavo
    a quale fosse il nome di lei,
    il tutto della parte,
    quale il codice fiscale,
    il colore preferito,
    e – per non cadere nel triviale –
    alle morte stagioni
    e al male di vivere.

    Ma poi
    un piede di troppo
    e sono scivolato
    nel banale.

    Lo sguardo è diventato sanguigno,
    linfatico, indecente.

    Il culo se n’è accorto,
    si è fermato
    e mentre lo ammiravo
    mi ha guardato
    come un qualsiasi abisso.

    È stato solo un attimo,
    mi son sentito inerme.
    Le cose e le persone
    sono rimaste ferme.

    Un angolo e le strade
    sono tagliate in due,
    andato sulle mie,
    rimasto sulle sue.

    Sparito, dileguato
    verso terra deserta.
    Io navigavo ancora
    nella giornata incerta.

    Ivan Talarico

    Pubblicata in Ogni giorno di felicità è una poesia che muore, Gorilla Sapiens Edizioni 2014

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